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Ci sono artisti che interpretano il mondo attraverso il proprio intimo percorso, mettendo in gioco il loro diretto coinvolgimento. Altri invece che affidano il loro dire alla monumentalità del processo esecutivo.

Davide Orlandi Dormino è un artista che appartiene a questa seconda categoria. In ogni suo lavoro c’è un’attinenza alla monumentalità, alla ricerca di senso attraverso il riferimento a tematiche imprescindibili per l’Uomo. La Storia e la Memoria sono da tempo oggetto consueto della sua ricerca, impregnata di una fisicità esecutiva che la caratterizza immediatamente. Per queste ragioni la sua è una scultura che potrebbe definirsi antica, ottocentesca: anche nelle opere più piccole si avverte l’esigenza di occupare lo spazio in modo totale, relazionandosi con l’ambiente in modo esclusivo e incisivo così come, nei lavori più concettuali – dove prevale il pensiero sull’azione – non viene mai meno una passione di Orlandi Dormino verso la rappresentazione fisica e verso la manomissione della materia, qualunque essa sia: marmo, ferro, gesso. Quando si guardano le sue opere finite inevitabilmente ci si sorprende a cercare i segni della lavorazione, le tracce della mano dell’artista. Quelle tracce sono parte integrante del lavoro e decisive nella comprensione della sua poetica.

Da qualche anno il rapporto di Orlandi Dormino con la Memoria è veicolato nella rappresentazione della Pagina, piccola o grande. L’opera procede verso una continua produzione di fogli, realizzati in materiali ogni volta diversi. Dai più preziosi come il marmo fino alla resina e al cemento.

Sono sempre pagine monumentali, percepite come luoghi attraverso i quali si può avanzare. Come nell’enorme installazione realizzata per il CIAC (Senza titolo 2008), dove i fogli bianchi della Storia hanno in qualche modo compiuto il loro percorso. La forza di questa imponente installazione sta nel silente messaggio delle grandi pagine disposte a terra in modo apparentemente casuale in attesa di essere recuperate per assolvere alla loro primaria funzione di essere scritte e lette.

Altro esempio di questa ricerca è la grandissima pagina in cemento bianco che l’artista ha posto sul limitare di una collina allo Scompiglio (Grande foglio, 2010). Un’enorme pedana sulla quale camminare, sedersi, riflettere. Un’opera che sembra invitarci ad entrare fisicamente nella Storia. Per contribuire a scriverla.

Anche quando le pagine volano alte per la città di Viterbo (Scripta volant # 2, 2010) il messaggio non cambia, è un filo rosso che guida chi lo segue. Nelle pagine sospese in alto la città restituisce Storia e Saperi e il visitatore si riappropria così di una memoria che non conosceva, di una cultura antica.

Tutta la produzione artistica dell’artista ci suggerisce che senza cultura non siamo niente, che la cultura è fatta anche di memoria consapevole. Perché chi ha memoria sa scrivere, sa leggere. Insegna e impara. Chi ha Memoria ha tutto.

Claudio Libero Pisano

Davide Orlandi Dormino

Untitled (1997)

Untitled (1997) di Davide Dormino si caratterizza per una sorta di camaleontismo formale che attrae e confonde allo stesso tempo. Il lavoro si posiziona all’interno di una tradizione plastica figurativa e coniuga intenzionalmente immagini del repertorio classico – dai maestri della storia dell’arte – le figure di Rodin, le donne di Willem De Kooning, la scultura di Degas, Picasso e Giacometti- con pratiche più recenti quali, ad esempio, la scultura dell’artista britannica Rebecca Warren. Si tratta di una serie di lavori che ha come soggetto essenzialmente la figura o il corpo, ciò che Heidegger ha per l’appunto definito “la cosa più difficile”, e che esprime la volontà di un disegno inquieto, contratto, e una densità di forme che sanno ben coniugare la presenza delle ombre e delle luci nella prospettiva di un’essenzialità che mira soltanto a produrre realtà ed energia. Il corpo è il luogo di tutti gli incontri e di tutti i rischi, palinsesto dove si inscrivono le tracce dell’esperienza, del piacere, delle turpitudini e delle abiezioni, delle sofferenze. Il corpo –“è il prodotto più tardivo della nostra vecchia cultura, quello che è stato più a lungo depurato, raffinato, smontato e rimontato”-, scrive il filosofo francese Jean-Luc Nancy.

Il termine “figura”, d’altro canto, come ci dice Erich Auerbach ha radice latina e all’origine significa proprio ‘formazione plastica’. Ha, per l’appunto, la stessa radice di “fingere”, che sta per formare, plasmare e di “figulo”, che significa foggiare, creare. Figulus infatti si chiamava il vasaio e fictor era il nome dello scultore. Ha lo stesso tema di “ effigies”, significa alle origini “formazione plastica” e si legge per la prima volta in Terenzio (Eum.317) che di una fanciulla dice: ”nova figura oris” (singolare forma di viso). In questa produzione scultorea Dormino recupera proprio questo significato originario del termine e lo fa servendosi di metamorfosi e trasformazioni, di un gioco di apparenze sempre in fuga di fronte ad altre apparenze. Così facendo l’artista interroga, con insolità vitalità, lo statuto di autorità e la stessa normativa della scultura medesima. Dando libero sfogo a una procedura creativa che nel momento in cui si materializza in forma ritorna contemporaneamente nell’amorfa proprietà dei materiali, Dormino suggerisce associazioni e risonanze di una particolare qualità emotiva. E’ un lavoro questo che si evolve attraverso un processo di appropriazione di riferimenti e che non si associa ad un processo didattico, piuttosto rivela un percorso di rivelazione e scoperta. Fisicamente sensuale, questa produzione palesa una pratica o una metodologia in cui tematiche di auto-espressione si trovano coniugate alle problematiche dell’ordinamento e della ragione della figura nello spazio. Questa sorta di quasi precaria attitudine rinforza paradossalmente la discrepanza dei significati ed esibisce una certa indifferenza nei confronti della tradizionale connotazione dei materiali usati.

Ogni cosa in questa serie di lavori rivela all’attenzione dello sguardo soprattutto un processo del fare e combina il virtuosismo formale con una sorta di sconcertato espressionismo. Untitled (1997) plasma una sorta di ideale, barbaro e forte allo stesso tempo, e visualizza con energia, ardita e sfrontata, un’icona ideale spinta sino al suo estremo. Figura da immaginario emulativo, il corpo si colloca così nello spazio con una forte consapevolezza convenzionale anche se il modellato disegna e allo stesso tempo astrae la forma umana provvedendo un organico contrappunto. Dormino spesso in questi casi si lascia attrarre dalla qualità ruvida del non-finito della statuaria classica che si impone nello spazio non ancora completamente liberata dal blocco di materiale che l’ha generata. Torride e agitate, imprigionate in una troppo solida sostanza, queste figure non si sono ancora arrese alle loro qualità di illusione. Qualcosa di spettrale vacilla ancora nel loro apparire, come se una sorta di vento le sfiorasse agitandone senza tregua le torsioni.

La Figura diventa allora formula di trasformazione e allegoria al tempo stesso, ha la capacità di diventare un’effige che compie il movimento di una fuga trattenuta. Essa diventa pulsione verso una geometria nascosta, verso un ordine che è l’ombra di un senso assente o di un senso a venire, di un’immagine la cui impossibile perfezione incombe nello spazio con l’inquietudine della forma.

Rita Selvaggio